Lunedì sera -- 23.05.05 -Seconda tavola rotonda/ aperitivo al gazebo-
-Second round table/ aperitif at the gazebo-
Tematica:
1. Su questo lunedì
About this Monday
2. Sulla seconda tavola rotonda
About the second roundtable
3. Su " L'arte e la cultura nell'epoca dell'Impero e al tempo delle moltitudini" di Antonio Negri
4. Su alcuni testi di riferimento
About some texts
Links:
http://www.16beavergroup.org
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1. Su questo lunedì
Cosa: aperitivo al gazebo
Quando: lunedì 23 maggio, h: 18.30
Dove: Giardini di Castello, alla fermata del vaporetto ai Giardini entrate nel parco e saremo prima
del parco dei bambini al gazebo, portate una stuoia o un telo e qualcosa da bere
Chi: chiunque possa
Lunedì sera ci troveremo al gazebo per una seconda tavola rotonda, per discutere,
sorseggiando un bicchiere, delle relazioni fra il lavoro, l'opera e l'azione nell'arte, sull'arte o dell'arte.
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1. About this Monday
What: aperitif at the gazebo
When: Monday 23 may, 6.30 pm
Where: at the Giardini di Castello, vaporetto stop Giardini: enter the Gardens and we'll be before
the playground, where the gazebo is, bring a mat or a tablecloth and something to drink
Who: whoever can come
Monday evening we'll meet at the gazebo for the second round table, to discuss,
enjoying a glass of wine, about the relationships between work, the "opera" and the action in art,
on art and of art.
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2. Sulla seconda tavola rotonda
Infatti, in ogni azione ciò che è soprattutto inteso dall'agente, sia che agisca per necessità naturale sia per libera volontà, è rivelare la propria imagine; da ciò segue che ogni agente, in quanto agente trae diletto dall'agire; poichè ogni cosa che è desidera il suo essere, e poichè nell'azione l'essere dell'agente è in certa misura più intenso, ne segue necessariamente un diletto...perciò nulla agisce se non per fare esistere il suo sè latente. (Dante)
La prima tavola rotonda si è tenuta il 1 Maggio di quest'anno intorno ad un tavolo di un ristorante a Venezia. Dieci persone e due cameriere si sono incontrati in occasione dell'evento " MayDay-2005: The Telepathic Table (Wherever You Are)" organizzato da 16 Beaver Group (New York): Tavolo telepatico, un progetto di collaborazione su e intorno al potenziale artistico, sociale e politico dei tavoli.
Parlando e invocando telepaticamente, nella giornata dedicata ai lavoratori, il Papa ed ascoltando il Padre Nostro di Pasolini, recitato da Gassman, abbiamo sentito la necessità di organizzare un secondo incontro per approfondire alcuni temi legati all'operare artistico.
La giornata del 1 Maggio ci ha portato ad alcune riflessioni sulle relazioni, oggi, fra il lavoro compiuto meccanicamente e ripetitivamente e la produzione di opere artistiche; e oltre a queste, le differenze che intercorrono fra processi creativi legati alla realizzazione di prodotti, più vicini all'idea di merce, ed altri tipi di realizzazione più effimere, connesse al concetto dell' "agire".
Il lavoro, al di là delle necessità di sopravvivenza, viene spesso associato agli stessi fini della ricerca, ovvero all'idea di progresso, di sviluppo.
E' possibile che invece l'arte, in alcune sue forme, si rivolga piuttosto verso un'idea di "perdita" o regressione, o si può parlare di una sorta di sospensione tra i due tipi di movimento?
Se il posto riservato al "capitale" viene sostituito sempre di più dall'immagine, che posto può occupare allora la creazione, intesa come atto di trasformazione?
Che direzione prende oggi nel contesto socio-culturale l'impegno artistico?
Queste sono alcune delle domande che proponiamo come punto di partenza, ma insieme al vino speriamo che ognuno porti con sè anche altre questioni.
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2. About the second roundtable
For in every action what is primarily intended by the doer, whether he acts from natural necessity or out of free will, is the disclosure of his own image. Hence it comes about that every doer, in so far as he does, takes delight in doing; since everything that desires its own being, and since in action the being of the doer is somehow intensified, delight necessarily follows ... Thus nothing acts unless by acting it makes patent its latent self. (Dante)
The first round table was held on MayDay (2005) around a table of a restaurant in Venice. Ten people and two waitresses met in occasion of the event " MayDay-2005: The Telepathic Table (Wherever You Are)", organized by 16 Beaver Group (New York): The Telepathic Table is a collaborative project on and around the artistic, social, and political potential of tables.
During the day dedicated to the workers, while speaking and invocating the Pope, , and listening to the "Padre Nostro" of Pasolini, read by Gassman, we felt the necessity of a second meeting to deepen some themes related with the acting/working in art.
Mayday brought us to some reflections about the relationships, today between the mechanic and repetitive work and the production of artworks; and about the differences that lie between some creative processes that intail the realization of products, near to the idea of commodity, and on the other side more ephemeral realizations connected to the idea of "acting".
Work, beyond the necessity for survival, is often related with the same aims that research has, like the idea of progress and the one of development.
Is it possible that art, in some of his declinations, is more addressed to the idea of "loss" or regression, or is it, between this two movements, a kind of suspension?
If the place held by "capital" is, more and more, substituted by the image, which place does the creation, meant as an act of transformation, occupy?
Which direction does the artistic commitment take, today, in the socio-cultural field?
These are some of the questions that we suggest as a starting point, but we hope that, together with the vine, each of us will bring some other possible questions.
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2. Su "L'arte e la cultura nell'epoca dell'Impero e al tempo delle moltitudini"
di Antonio Negri
1. La critica della cultura spesso si ripete. A ragione o a torto, rispetto al nostro attuale posizionamento? Quando nel 1947, al termine della seconda guerra mondiale, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno pubblicano la Dialettica dell'Illuminismo , un nuovo modello critico, singolare quanto capace di essere riprodotto, differente e disposto ad essere ripetuto, venne alla luce. Riflettendo sull'Europa devastata dal fascismo che gli autori si erano lasciati alle spalle e sulla società americana che li aveva accolti esuli, Adorno ed Horkheimer considerano la tendenza dell'Illuminismo a rovesciarsi nel suo contrario, non solo all'aperta barbarie del fascismo ma anche nell'asservimento totalitario delle masse attraverso le nuove blandizie dell'industria culturale. Fascismo europeo e mercificazione americana erano poste sullo stesso piano. Da allora (fine della seconda guerra mondiale) ad oggi, quel giudizio sulla cultura occidentale si è confermato man mano e a misura che l'Impero veniva costituendosi. La conversione del fascismo nella mercificazione della cultura si realizzava senza soluzione di continuità: si distribuiva sull'intera faccia del pianeta e le telecomunicazioni ne diventavano lo strumento di diffusione fondamentale... Alla correzione dell'immagine, seguiva l'universale prostituzione del turismo, e mille altre deturpazioni del gusto. Guardate le televisioni di Murdoch e avrete la verifica che il modello adorniano di critica della cultura ha davvero scoperto l'ontologia del nuovo mondo. La riconversione di questo mondo al fascismo, la sua ricostruzione secondo moduli di guerra, la sua corruzione attraverso immagini degradanti: bene, tutto questo conosce oggi esponenti moltiplicativi... Finalmente la TV è diventata interattiva, produce cultura trash e costruisce un'audience adeguata!
L'ascolto richiede nuove produzioni trash e così il circolo si perfeziona. La neutralizzazione dell'informazione segue le stesse leggi dello schiacciamento delle passioni: se il romantico e il classico sono entrambi ridotti a segno insignificante, la verità o è comandata o è volgare. Il modello adorniano si è esasperato: gli elementi di innovazione, nella critica della cultura, che esso conteneva alla fine della seconda guerra mondiale, si sono fatti banali. L'indignazione non è più possibile. Qui allora la critica della cultura necessariamente si ripete.
Dentro e contro questa macchina infernale, che globalizza la cultura nel momento stesso in cui ne straccia e perverte i valori, insorge sempre un'anima. Tuttavia, mentre il cerchio della comunicazione culturale è perfetto ed autosufficiente, il percorso dell'anima può solo nutrirsi di altro: del desiderio dei corpi, della libertà delle moltitudini, della potenza dei linguaggi. Nell'astratto orrido della comunicazione telematica qualcosa si soggettivizza: è l'anima della moltitudine. Nel mondo dei segni pervertiti qualcuno produce semplici segni di verità: guardate Basquiat, segni infantili descrizioni utopiche... Se la produzione è linguistica, è attraverso la lingua che la soggettività si pone. L'astratto della comunicazione diviene il corpo delle singolarità... Così nasce la moltitudine.
2. La TV cerca di ricostruire, ad immagine e somiglianza del padrone, in generale, della funzione di comando, il mondo visibile. Essa è interattiva verso il basso, lo domina, lo disintegra, infine lo produce. Le guerre vengono raccontate secondo linguaggi che vanno dall'oscuramento della realtà alla narrazione di globali fantasticherie. La documentazione della guerra diviene videogioco. Eppure quando la moltitudine si scopre all'interno della neutralizzazione della vita, allora tutta quella baracca trema e si scolla. Cominciò nel Vietnam, la demistificazione moltitudinaria della verità del potere: bastarono pochi fotografi, e qualche soldato filosofo, per mostrare di che lacrime e di che sangue grondasse quella guerra. Da allora il meccanismo della demistificazione e la capacità di mordere il mondo vivo, sono diventati virus e si espandono con la violenza di un'epidemia. Prendete Genova, dove (durante le manifestazioni contro il G8) la polizia sviluppava la sua guerra a bassa intensità contro pacifici manifestanti, accusandoli - attraverso i mezzi di informazione - di essere bande di malfattori. Invano, la moltitudine possedeva infatti più macchine foto e video della polizia, infinitamente di più, in ciascuna famiglia entrava l'immagine del poliziotto assassino... La moltitudine si ribellava attraverso la propria capacità di produzione di immagini, rendendo ribelle l'astrazione dei segni. Non c'era più la possibilità di trasformare il mondo solo interpretandolo: l'ultimo progetto della filosofia, fatto proprio da quei comunicatori che Adorno avrebbe chiamato fascisti, non si da più. Come raccontava un vecchio barbuto, la sola possibile interpretazione del mondo consisteva nella sua trasformazione.
Se così stanno le cose, la Dialettica dell'Illuminismo si è finalmente esaurita, estinta nella produzione capitalistica di immagini ripetitive ("la storia è finita") e sostituita dalla nuova produzione del desiderio. L'astratto che era stato mercificato, è ora forse redento dall'iniziativa delle moltitudini. Addio Adorno, addio realismo e ripetizione del modello critico moderno: qui la critica della cultura si instaura su un terreno nuovo, quello della moltitudine, del post-moderno. Forse la moltitudine non produce più utopia, ma disutopia, la capacità di starci dentro, la capacità di scavare il linguaggio dall'interno, di far venir fuori il desiderio materiale della trasformazione.
3. La disutopia delle moltitudini non vive astrattamente ma piuttosto in maniera biopolitica. Questo significa che la cultura è riconoscibile in forme strutturalmente dense, viventi. Quando si parla di biopolitica si guardano il comando e la violenza, per così dire, dal basso, cioè dal punto di vista opposto a quello da cui promana il biopotere. E tuttavia non c'è qui la possibilità di cogliere una dialettica dell'alto e del basso, di un alto o di un basso contrapposti a un basso o a un alto. La moltitudine è un insieme di singolarità, proliferanti, capaci di esprimere nuove determinazioni linguistiche. La dialettica classica riconduce all'uno: questa nuova dialettica è invece caotica - le moltitudini sono insiemi di atomi che si ritrovano secondo clinamena sempre intempestivi ed eccezionali.
Non c'è dialettica dunque come contrapposizione tra il vivere dentro le strutture del biopotere ed il percorrerle liberamente, in maniera antagonista, come soggetti biopolitici. Oggi l'unico problema che ci tocca, quando guardiamo le nuove determinazioni culturali sullo spazio imperiale, è quello di cogliere l'incrocio, la determinazione dell'evento, le innovazioni che percorrono l'insieme caotico delle moltitudini. Si tratta di capire quando l'espressione biopolitica la vince contro l'espressione del biopotere. Non ci sono sintesi né Aufhebungen , ci sono solo opposizioni, espressioni divaricate, molteplicità di tensioni linguistiche che vanno in tutti i sensi. Il passaggio dal moderno al postmoderno è caratterizzato dalla dismisura che il postmoderno introduce: dismisura come fine di tutti i criteri di misura che il razionalismo moderno aveva proposto ed imposto. Quella misura, quella razionalità strumentale che nell'età d'oro del moderno (fra l'umanesimo e Cartesio) si impongono spontaneamente; che nell'età argentea del moderno da Hegel a Bergson sono espresse come sintesi metafisica di un mondo ordinato; che nella fase bronzea del moderno vengono fatte valere con la violenza della razionalità strumentale alla Weber e della pianificazione keynesiana - bene, quella misura e quella razionalità sono terminate. Non è semplicemente vero, come diceva Adorno, che dopo Auschwitz la poesia non è più possibile, e neppure è semplicemente vero che dopo Hiroshima, come diceva Günther Anders, ogni speranza è morta: poesia e speranza sono ravvivate dalle moltitudini postmoderne, ma esse non hanno più misura omogenea con la poesia e la speranza del moderno. Quale dunque il nuovo canone della cultura postmoderna? Noi non lo sappiamo, ma non è detto che debba esserci. Quel che sappiamo è che questa grande trasformazione si agita nella vita ed è nella vita che essa esprime nuove figure: figure senza misura, dismisure formali. Mostri.
4. L'innovazione postmoderna è dunque mostruosa. Due sono le caratteristiche di questa mostruosità: il suo essere nella mancanza di misura ed il suo smisurato divenire ontologico. Cominciamo, dunque, a parlare del mostro seguendo in maniera specifica queste due sue caratteristiche. E cominciamo dal suo divenire ontologico. Lo si era già accennato: le espressioni viventi della nuova cultura non nascono come figure sintetiche ma come eventi, intempestività, divengono dentro una genealogia di elementi vitali che costituiscono innovazione radicale e forme della dismisura. Alcuni filosofi contemporanei, inseguendo questa nuova forza espressiva del postmoderno, hanno cercato di qualificarla: già in Lacan l'assenza di misura del nuovo e dell'arte, del significativo in genere, era soprattutto sottolineata; in Derrida la produttività del margine, disseminandosi, cerca nuovi ordini; Nancy e Agamben, in una maniera o nell'altra, colgono fiori su questi prati dell'estremo limite... Non v'è nulla che qualifichi positivamente, in tutti questi autori, la mostruosità dell'innovazione, e tuttavia c'è in loro il sentimento acuto e l'intensità dell'esasperazione ontologica. Quanto più sono improduttive ed assenti, tanto più le nuove forme si danno e scivolano nell'essere. Vi si immergono o vi affogano. Cercano di respirare di tra sabbie mobili. Ma in realtà, quel che quegli autori non percepiscono, è che questa materia nella quale hanno accettato di immergersi è la creta costruttiva di nuovi mondi. La dimensione ontologica non confina sull'orlo del nulla ma si nutre della costitutività degli uomini che agiscono, temerari e senza alternativa, la loro vita su quel margine impossibile. La dimensione ontologica non si affida al comando di un capitale sempre più parassita, ma si sviluppa dall'intellettualità mutitudinaria dei lavoratori immateriali, mobili, flessibili, precari, disperati di poter essere. La dimensione ontologica viene fuori da una serie di paradossi: il farsi-donna del lavoro, il congiungersi della ragione e degli affetti nella produzione. E potremmo continuare senza sosta a definire questa ambivalente ma radicale condizione ontologica che implica sempre il posizionamento di chi vive questo passaggio dal moderno al postmoderno. Il mostro nasce dentro la dimensione ontologica.
Ma appunto, questa dimensione ontologica del caos innovativo ha, come seconda caratteristica, la mancanza di misura. Il mostro è mancanza di misura, oppure nuova misura: ma chi saprà dire, nella transizione, il negativo o il positivo, l'esodo o la capacità costituente? Tra il Seicento e il Settecento, nell'indagare la natura, gli scienziati cercavano curiosamente le difformità ed i Re le raccoglievano in musei dell'orrido. Attenzione tuttavia: per loro la smisuratezza era apologia della misura: l'orrido, come il sublime, restituiscono l'anima al desiderio di ordine. Quante galline a tre teste, quanti feti plurigemellari o plurisessuati, quante distorsioni o difformità fisiche sono state raccolte in quei musei dello straordinario e delle deviazioni anatomiche. Geoffroy Saint-Hilaire ci ha lasciato enciclopedie storiche delle anomalie dell'organizzazione naturale e persino dei tentativi di determinare le leggi e le cause delle mostruosità delle varie età e dei vizi delle formazioni naturali. Tutto ciò ebbe persino un nome: teratologia. Ebbene, oggi la nuova figura postmoderna del mostruoso non è teratologica. È semplicemente la vita che si esprime altrimenti, è l'ibrido che macchine singolari dell'esistere nel caos desiderano costruire fra generi umani ed animali, è la speranza e la decisione di una vita che non è gerarchicamente ordinata né prefigurata da una misura. Aristotele, e prima di lui gran parte della filosofia antica (comunque quella che è stata innalzata a memoria dell'umanità) ci dice che l'origine dell'essere è anche il suo ordine e la sua misura, che l' arché è insieme principio e comando. Questo eugenismo è stato ripreso in quella modernità che nell'antico ha cercato la legittimità dei suoi stilemi. L'indicazione del mostro è la negazione dell'eugenismo classico e moderno, è esposizione di un processo ontologico che ha abbandonato l'essenza come principio. Forse questo nostro camminare ci porta dentro selve oscure e la nostra capacità di orientamento di tanto in tanto si confonde: ma è questo camminare domandando, è questa mancanza di origine ordinata e misurata che non possiamo fare a meno di rivendicare. È una tensione che scardina ogni preconcetto; non solo ogni preconcetto ma ogni prefigurazione; non solo ogni prefigurazione ma ogni matrice unitaria, spaziale o temporale; ed è qui che si apre una creatività convulsa instaurata in mezzo all'essere... Non genealogie di avanguardie, ma storia concreta di moltitudini di singolarità. Mostruosità antropologiche. Dopo che un bosco è incendiato, il terreno e fertilizzato. Hanno incendiato il bosco (ma esso si muove) e noi torniamo selvatici, liberi come uccelli, ad abitare una nuova natura.
5. Le dimensioni della globalizzazione sono vicine alla smisuratezza. Comunque il mondo non ha più "fuori". Non ha "fuori" così come non ha precedenti. Guardiamo l'antropologia culturale, così come si è formata ed è venuta poi sviluppandosi: era l'uomo europeo che l'abitava centralmente, ed esso aveva due fuori: il primitivo e l'indigeno, ovvero il barbaro. Un precedente antropologico ed un fuori politico. L'uomo europeo costituiva il punto centrale cui tutto il resto della civiltà ambiva. Il mercato come le figure estetiche, la moneta come l'habitat, il Welt come l' Umwelt : la storia si svolgeva verso un monopolio che era quello dell'uomo europeo - quel che gli era prima, era primitivo; quello che l'uomo europeo ora dominava, era barbaro o indigeno. Ma se con la globalizzazione, lo spazio umano non conosce più limiti ma solo un limite, uno solo, la sua esterna circonferenza, allora una volta raggiunto questo limite, ogni ulteriore espressione non può che rivolgersi verso l'interno. C'è un filo rosso che dà senso a questa massima estensione dell'autoriflessione: è certo l'ultimo prometeismo, l'ultimo universalismo della cultura borghese, ma forse potrebbe essere anche definito come la prima determinazione del Gattungswesen di un'umanità liberata. Tutta la storia che ha preceduto la mondializzazione ci ha condotto a quel limite: esso voleva essere il segno dell'estensione del dominio della cultura occidentale ma nello stesso tempo esso rivela il massimo, e talora mostruoso, effetto di un processo di contraddizioni e di lotte, della genealogia di un soggetto che si vuole incontenibile ma è lì, dentro quei limiti. La scena del mondo non è dunque semplicemente un orizzonte: è una vera e propria scenografia, e i materiali scenografici (da dopo i Balletti Russi ) sono diventati parte del dramma. La scena del mondo è insieme illimitata e finita, vive di questo confronto mostruoso. Su di essa possono essere predicate la fine della storia e la totale realizzazione di questa. Ogni opera raggiunge un significato estetico quando riesca a corroborare (affermandolo o negandolo) questo paradosso. Il mondo è diventato grandissimo e nello stesso tempo piccolissimo, ci troviamo in una situazione pascaliana. Ma non vi è più Dio. Lo spazio è liscio e superficiale, l'immanenza del valore si affida solamente alle opere degli uomini. Che cosa vuol dire essere artisti dentro questa situazione?
6. Che cosa vuol dire fare agire il mostro sulla nuova scena del mondo? Significa guardarlo agire dentro un processo di metamorfosi antropologica, significa identificarlo nella mutazione. Questa mutazione è spaziale - lo abbiamo visto - ma è anche temporale: è nel tempo che la fine della storia, quando la civiltà occidentale borghese ha raggiunto il limite del mondo, si realizza. La sintesi spaziale del qui e del mondo vuole assorbire quella temporale dell'ora e dell'infinito. La metamorfosi antropologica si svolge attorno a questi paradossali insiemi. Il postmoderno è questo. È una grande narrazione del tutto mostruosa... La carne delle vicende umane non riesce infatti a essere conclusa in quell'unità di tempo e luogo che il racconto esige. La carne non si fa corpo. La carne trabocca su ogni lato dell'espressione artistica, su ogni bordo della vicenda globale. Vi sono enormi passioni che corrono dentro questa impossibilità della carne a farsi corpo. Una volta, nel corso della grande epoca che precedette il Sessantotto, questa incapacità della carne di farsi corpo era vissuta come apertura utopica. Utopia artistica: le avanguardie letterarie ed estetiche dovevano creare utopia. La fine del mondo si avvicinava nella misura in cui l'utopia lambiva l'estrema capacità della prassi collettiva di costruire il reale. Come per i grandi autori protocristiani, l'obiettivo, il capolavoro, era l'Apocalisse... Ma nel postmoderno, qui da noi, ora, non è più possibile essere profetici. Noi ragioniamo di Apocalisse senza essere profeti, noi parliamo di avanguardia senza essere utopisti: il mondo si è concluso, l'attenzione è tutta interna, le vie di fuga sono interrotte. Abbiamo solo la possibilità di trasformare il mondo dal didentro. "Un'altro mondo è possibile" implica un esodo che va verso noi stessi. Ogni volta che il limite è toccato (ed è un limite che non ha fuori, che non può essere oltrepassato), noi non possiamo che riconcentrare l'attenzione sul kairòs attuale... Ma che cos'è il kairòs ? Nella cultura greca era quell'attimo di tempo che lo scoccare della freccia segnava: quella era una civiltà che concepiva ancora un futuro e quindi un rapporto tra il lasciar partire la freccia e il vederla arrivare. La freccia scagliata nel cielo poteva raggiungere le stelle. Qui invece kairòs è la freccia che ci tocca il cuore, è la freccia che torna dal limite stellare. Kairòs è la necessità (ma anche la possibilità) di costruire su se stessi. È la possibilità di trasformare i corpi, non tanto e non solo di meticciarli verso l'esterno, ma di costruirli e di ibridarli dall'interno. È la possibilità di far politica riportando tutti gli elementi della vita ad una ricostruzione poetica. Nel termine stesso di biopolitica ci sta questo progetto costitutivo. Insomma, quando viviamo nella globalizzazione, quando viviamo dentro un mondo dai limiti insuperabili, quando la rivoluzione copernicana si è definitivamente esaurita, e Tolomeo e la centralità del kairòs sono diventati l'esclusivo punto di riferimento, quando tutto questo sia dato, che cosa significherà sviluppare lo spirito creativo e costitutivo dell'operare artistico? Quando l'unica possibilità d'azione, artistica ed etica, consiste nel muoversi dal di dentro dell'essere, ed è quindi azione biopolitica, sicché ogni fare è un trasformare l'essenza stessa, fisica e spirituale del corpo umano; quando la struttura del sociale è diventata così centrale ed il mondo è diventato così piccolo e ristretto che non vi è più possibilità di uscire da questo habitat e non si danno più illusioni utopiche (di altri topoi ); bene, allora che cosa significa agire artisticamente? Significa costruire nuovo essere, significa riflettere verso l'interno lo spazio globale, verso l'esistenza della singolarità. Significherà questo muoversi per togliere la morte, per dissolvere i limiti interiori della macchina globale? Il mostro ci promette questo.
7. La moltitudine è il solo soggetto che può lanciare questa sfida creativa alla morte. La moltitudine è un insieme di singolarità, ma anche la singolarità è un insieme di moltitudini. La moltitudine è un insieme di corpi ma ogni corpo è una moltitudine di corpi. Questa macchina lotta per la vita, lotta nella vita, contro la morte. L'agire della moltitudine è null'altro che questo proliferare continuo di esperienze vitali che hanno in comune la negazione della morte, il rifiuto radicale e definitivo di ciò che ferma il processo della vita. Il mondo globale, così come lo conosciamo, così come l'Impero ce lo consegna nell'ordine politico, è un mondo chiuso: esso è sottoposto all'entropia dell'esaurimento dello spazio e del tempo. Ma la moltitudine che agisce dentro questo mondo chiuso ha imparato a trasformarlo passando attraverso ciascuno dei soggetti, a ciascuna singolarità, che compone questo mondo. Quando credevamo che la storia fosse finita, dice da qualche parte Foucault, percepimmo che essa si rinnovava sulla verticale di noi stessi... Così è quel che accade a noi, a noi moltitudine, a noi corpo di moltitudini. È solo nella nostra trasformazione, e in una lotta feroce contro la morte, che si apre l'azione della moltitudine.
Questo mi sembra il significato dell'arte nell'epoca dell'Impero e al tempo delle moltitudini.
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4. Su alcuni testi di riferimento
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana. , Bompiani, Milano, I ed. 1958, X ed. 2003
G. Agamben, Elogio della profanazione, in Profanazioni , nottetempo, Roma, 2005
W. Benjamin, L'autore come produttore. in Opere complete. VI. Scritti 1934-1937 , Einaudi, Torino, 2004
Tiqqun, La comunità terribile. Sulla miseria dell'ambiente sovversivo. I ed. No.2 Ottobre, 2001, DeiveApprodi, Roma 2003
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4. About some texts
H. Arendt, The human condition, The University of Chicago, I ed. 1958, Chicago, 1998
W. Benjamin, The Author's Producer in Walter Benjamin: Selected Writings, Volume 2, part 2, 1931-1934 , Harvard University Press, Cambridge, 2005
Tiqqun, La comunità terribile. Sulla miseria dell'ambiente sovversivo. I ed. No.2 Ottobre, 2001, DeiveApprodi, Roma 2003
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